L’isola tiberina

L’isola tiberina, mon amour
Oggi è domenica, per fortuna non devo lavorare e posso godermi la giornata così come voglio senza orari e impegni. Decido di andare a fare un giro in bicicletta, le giornate ancora sono tiepide e il sole ci regala momenti estivi. Ovviamente non posso lasciare la mia cagnolina a casa: non me lo perdonerebbe mai.
Lilly ha il suo bel bauletto davanti al manubrio e appena le dico di uscire incomincia a fare mille feste di gioia e, quando vede la bici, salta subito scodinzolante al suo posto. Così,  con in spalla la borsa-zainetto regalatami a Natale dalla mia amica Raffaella. Un regalo così giusto solo lei me lo poteva fare perché esprime molto bene la mia essenza elegante ma nello stesso tempo sportiva e poi è di uno dei miei colori preferiti rosso fuoco. All’interno c’è sempre la mia inseparabile macchinetta fotografica e il mio iPad per prendere appunti, e così ci mettiamo a pedalare e decidiamo di girare per le vie del centro storico che ad ogni angolo nascondono una sorpresa: anche se non c’è nulla di speciale, se è solo un punto qualsiasi della città, un luogo anonimo di transito vale la pena soffermarsi un attimo perché c’è sempre da guardare. Ci dirigiamo verso il biondo Tevere dove c’è un’isola ancorata lì da millenni come un bastimento che aspetta di salpare, l’acqua del porto che la sostiene racconta ogni giorno qualcosa di nuovo. Oggi andiamo a scoprire l’isola Tiberina e i suoi due ponti che quando è ritratta nella sua interezza, rivela la vera identità di barca con l’obelisco, che non esiste più, albero maestro piantato al centro e i due ponti gettati verso la terraferma.
Mi viene voglia, allora, di continuarvi a raccontare dei primi ponti di Roma. Nel mio post del 17 febbraio vi ho parlato del Ponte Sublicio oggi invece dei ponti Fabricio e Cestio e della nave in mezzo al Tevere.
Dopo aver attraversato il Ghetto giungiamo presso l’isola tiberina attraversando il Ponte Fabricio dove l’acqua s’arrotola e scorre tempestosa.
Le fonti storiche ci dicono che nel 192 a.C fu realizzato un ponte in legno e fu rimpiazzato solo nel 62 a. C. dalle due arcate in pietra, tufo e lastre di travertino. Quattro iscrizioni identiche, incise in lettere capitali sugli archivolti, tramandano il nome del curator viarum Lucio Fabricio che ne garantì anche il collaudo. Durante il Medioevo la denominazione di Ponte Fabricio fu sostituita con quella di ponte dei Giudei per la sua vicinanza al quartiere ebraico, successivamente fu chiamato anche Ponte dei Quattro Capi, a causa della coppia di pilastrini con erme quadricipiti, inserite nelle spallette dei parapetti. Le due erme che ancora oggi ci sono sembrano sentinelle, all’erta sui quattro punti cardinali. Un abbozzo di treccioline pende lungo le tempie fino alle spalle. I visi non sono identici, non sai più se per effetto del logorio o pensati differenti fin dall’inizio, alcuni hanno ancora un ricordo di bocca appena accennato e due fossette al posto degli occhi, gli altri invece hanno completato il processo di riassorbimento di ogni aspetto umano e mostrano una faccia senza volto
Ed eccoci nel cuore dell’isola Tiberina lunga circa 270 m., e larga circa 70; in epoca antica permetteva agli uomini e alle bestie di passare dalla riva destra, quella etrusca, alla riva sinistra. Livio ci racconta a proposito della nascita di ques’isola una bellissima leggenda.
La plebe dopo aver cacciato Tarquinio il Superbo invadeva i campi appartenuti all’ultimo re, strappava le spighe bionde, le stringeva in saldi covoni e le gettava nel fiume.
Scarse erano le acque dell’estate e le messi copiose, non trascinate dalla corrente, formarono un grosso viluppo, il quale, cementato a poco a poco dal pattume e dal sopraggiungere di materiali vaganti, plasmò un’isola che dipoi la mano dell’uomo rese ” solida e capace di sopportare templi e portici”.
L’isola tiberina rappresenta nella storia urbana e sociale di Roma uno dei luoghi più ricchi di memorie, tanto da essere definita il centro di Roma. Da sempre ha costituito un punto nodale di relazione con la città al centro sia della vita economica, tramite l’arteria fluviale della Via Mercatoria, sia della vita religiosa e civile, grazie alla presenza di templi e poi di chiese, ordini religiosi e istituzioni assistenziali. Nonostante fosse situata non lontano dal centro della città, l’isola non ha mai avuto importanza nello sviluppo e nella storia di Roma, e fu adibita a ricovero degli infermi. Svetonio (Claud. 25) dice che sull’isola si lasciavano i malati che non si volevano tenere in casa, precisando che Claudio sancì che quei servi malati o cagionevoli che vi fossero stati lasciati da coloro che non volevano avere il fastidio dí curarli, divenissero immediatamente liberi e tali restassero anche dopo la guarigione.
Ancora oggi, come nell’antichità, l’isola era attraversata da un’unica strada, il vicus censorii, che serviva per collegare i due ponti e, quindi, le due rive del fiume; la denominazione Censori potrebbe riferirsi ad un Censorius altrimenti sconosciuto. Nell’area centrale ci doveva essere una sorta di albero maestro, rappresentato, in origine, da un obelisco, andato perduto e sostituito dalla cosiddetta ” colonna infame” sulla quale veniva affissa una tabella in cui erano indicati i ” banditi che nel giorno di Pasqua non partecipavano alla messa eucaristica”.
Verso la metà dell’800 la colonna infame è stata sostituita da un monumento con le statue dei santi Bartolomeo, Francesco d’Assisi, Paolino da Nola e Giovanni di Dio.
Dietro questo monumento oggi sorge la chiesa di San Bartolomeo mentre in epoca romana, il tempio dedicato al Dio della medicina Esculapio.
Nel 293 a Roma scoppiò una terribile pestilenza e invano gli abitanti supplicarono gli dei della Città di placare il flagello. Alla fine, a seguito di un imperioso oracolo dei Libri sibillini, i romani si recarono in Grecia per domandare la protezione di Esculapio, che lì era assai venerato. Mentre i pellegrini offrivano i loro sacrifici, dalla terra del sacro luogo usci un serpente che immediatamente si nascose sulla nave romana; la delegazione capì che sotto forma di questo animale si era manifestato loro il Dio e così i romani incominciarono a ritornare verso l’Urbe.
Ovidio, nel libro delle metamorfosi, ci racconta che la nave, dopo essere arrivata ad Ostia, risalì il Tevere, ma una volta giunta nei pressi dell’isola, il serpente balzò rapido dal legno, guizzò fra le acque e si nascose su di essa.
La volontà del dio era evidente: in quel posto bisognava costruire un tempio a lui dedicato. A partire da quel momento, tutta l’isola fu lavorata in modo tale da raffigurare una nave.
D’altra parte un dio straniero poteva prendere stanza solo in una terra situata fuori del pomerio; è tale era l’Isola: il serpente non si era ingannato…..
Un dio della medicina, poi, non poteva non ravvisare nell’isola la più autentica e più comoda zona d’isolamento, collegata con i centri più affollati della città. Pomponio Festo attesta:” nell’isola fu costruito un tempio a Esculapio, dove gli infermi si curavano dai medici particolarmente con l’acqua”
Il tempio venne inaugurato il primo gennaio del 289 a.C.
Ma non era il solo, ce n’erano altri:
quello di Semo Sanctus, delle divinità sabine del Quirinale, dì Bellona detta Insulensis e di Igea compagna di Esculapio, quello di Teleforo, piccolo nume incappucciato di origine anatolica, che si aggiunse un secondo momento alla coppia divina di Igea e di Esculapio, quello del Dio Tiberino festeggiato insieme a Gaia l’8 dicembre. C’erano, inoltre, quello di Fauno costruito nel 196 a. C., quasi un secolo dopo la costruzione del tempio di Esculapio, e quello di Veiove. Appena due anni dopo, nel 194 a.C., verso la parte centrale dell’isola fu costruito il tempio dedicato a Giove Giugario cioè Giove nella veste di divinità garante dei giuramenti. Sulla base di un passo di Ovidio, l’edificio veniva generalmente ubicato nella zona del moderno ospedale, non lontano dal complesso di Esculapio. La conferma dell’esattezza di tale menzione è venuta nel 1854, quando al di sotto della chiesa di San Giovanni calibita è stato rinvenuto un tratto di pavimento in signino con un’iscrizione dedicatoria a Giove Giurario.
Oggi sull’isola possiamo ammirare una torre difensiva della famiglia Pierleoni, poi Caetani e, tra i mattoncini che costituiscono la torre, è possibile scorgere la testa in marmo di una fanciulla databile al I sec, tanto che questa struttura difensiva è chiamata anche “la torre della Pulzella”.
Poi ci sono due importanti chiese: San Bartolomeo e San Giovanni Calibita.
La cosiddetta epoca dei papi portò con sé nuovi e importanti cambiamenti tra cui l’ampliamento del piccolo ricovero per poveri ed ammalati: ben presto venne trasformato infatti in uno degli ospedali più efficienti dell’epoca, grazie all’instancabile lavoro dei frati di San Giovanni di Dio, meglio conosciuti come Fatebenefratelli, dalla caratteristica frase che amavano ripetere al popolo durante i loro giri per la questua.
Un’altra interessante curiosità è legata alla Madonna della Lampada, così chiamata per la presenza di una lampada costantemente accesa in segno di devozione, la cui effige si può oggi ammirare nella chiesa di San Giovanni Calibita e una sua fedele copia sul muro esterno di questa. Si racconta che molti anni fa, durante una terribile piena, il Tevere arrivò a sommergere quasi totalmente l’Isola e l’immagine sacra stessa ma, con gran stupore di tutti, una volta che le acque si ritirarono, si constatò che la fiamma della lampada non solo non si era spenta, ma anzi brillava ancora più vivida e fulgente.
L’Isola è anche famosa per aver accolto in epoche più recenti molti ebrei che cercavano rifugio dagli attacchi dei nazifascisti: è per questo che oggi qui sorge l’ospedale israelitico, simbolicamente vicino al famoso e terribile ghetto ebraico.
Non vi sono quasi più abitazioni private sull’Isola, ma alcuni interessanti negozi come una farmacia cinquecentesca con i suoi infissi di legno, un bar, una gelateria e lo storico ristorante romanesco “La Sora Lella” aperto dalla grande attrice Elena Fabrizi nel 1959 sorella dell’attore Aldo Fabrizi.
Ma la cosa più bella è scendere a passeggiare sullo zoccolo bianco che gira tutt’intorno, sfiorato dalla corrente. Ora l’acqua del fiume é scarsa e l’isola pare arenata in una malinconia senza tempo. È un buon posto per sedersi e riflettere su tutto e sul niente, allora mi metto in braccio Lilly lasciando che il vento ci accarezzi e ci scompigli i pensieri. Dopo esserci goduta questa pausa meravigliosa risaliamo per riprendere la strada del ritorno e così riprendiamo la nostra bici e attraversiamo il secondo ponte per lasciarci alla spalle l’isola per rientrare a casa.
Il ponte Cestio fu costruito per unire l’isola con Trastevere dal magistrato L. Cestio nel 46 a.C. Dopo un restauro del 152 d. C. Subì un totale rifacimento nel 370 d. C. con l’impiego di blocchi di travertino dell’ordine inferiore, quello dorico, del teatro di Marcello. Il restauro fu ordinato dagli imperatori Valente e Graziano nel 365 d. C., come ricorda l’iscrizione che ancora possiamo leggere nel parapetto nord. Alla fine del 1800 furono compiuti dei restauri e delle sostanziali modifiche e fu allungato.
Questi due ponti compongono un gruppo architettonico e pittorico con la nave di Esculapio.
Se vi è venuta voglia di visitare quest’isola il momento migliore è farlo all’alba quando la città si sta lentamente risvegliano o al tramonto quando il sole sembra baciare le mille cupole che da qui si vedono.

Ciao al prossimo post

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